mercoledì 8 dicembre 2010

Tra i berluscones cresce il partito del regicidio

I teorici del «passo indietro». Da Alfano a Gelmini, da Scajola ai sostenitori di Gianni Letta a Palazzo Chigi, nel Pdl sono sempre di più i compagni d’arme convinti che un ripensamento da parte del premier sarebbe la salvezza per tutti.
Fedeli fino alla morte (politica s’intende). Del Cavaliere. Poi, si vedrà, dopo il voto di sfiducia. Ora che la maggioranza si scopre senza numeri, che Fini lascia intendere di avere la carta del governo tecnico tra le mani, avanza, nel Pdl, la tentazione del regicidio. Di sostenere un esecutivo senza Berlusconi, magari guidato da Gianni Letta.
I dubbi già serpeggiano tra le truppe. Tra quei novanta - novanta, come la paura - parlamentari e senatori del Pdl a rischio di rielezione o di ricandidatura, se si andasse al voto.
Nordisti inermi di fronte all’avanzata leghista. Ex aennini preoccupati, sono una settantina in tutto, che non si sentono tutti garantiti di fronte all’avanzata futurista. Cortigiane illustri, timorose che le nuove favorite del Capo coltivino l’ambizione di passare dall’harem all’Aula. Tra loro è forte la tentazione di tradire il premier. Magari non il giorno della sfiducia. Ma il giorno dopo, è tutt’altra storia. Altro giorno, altro governo.

E dubbi ben più gravi serpeggiano tra i generali, che conoscono, eccome l’umore delle truppe, pronte a votare la propria sopravvivenza parlamentare. Proprio i più fedeli compagni d’arme del Cavaliere da giorni si dicono che un passo indietro di Berlusconi sarebbe la salvezza per tutti. Che dovrebbe essere proprio lui, Berlusconi, a indicare un successore. I ministri di Liberamente, i pretoriani appunto, hanno mandato messaggi a Fini, gli hanno detto che se fosse stato per loro avrebbero trattato su tutto. Però, hanno aggiunto, col premier non si ragiona. È chiuso nel suo bunker e non ascolta nessuno. E così è un disastro per tutti. Chissà se dopo la conta gli sfoghi privati diventeranno contestazioni pubbliche.

Mariastella Gelmini, ad esempio, pensa che un accordo con Fini andrebbe ancora tentato: «Io - è sbottata coi suoi - Berlusconi lo difendo, ma non può sempre provocare la rottura, lo scontro per lo scontro, non possiamo stare nelle mani di gente come la Santanchè». Più delle formule - Berlusconi bis, rimpasto, passo indietro - vale il principio. Per i pretoriani il Cavaliere ha delle responsabilità nello sfascio, su molti temi. Durante la travagliata approvazione della riforma dell’università, per dirne una, la ministra si sfogò con un taciturno Cicchitto: «Quello sta a palazzo Grazioli e non si rende conto che chiedere le dimissioni di Fini oggi rischia di far saltare tutto». Provvidenziale, allora, fu un intervento di Gianni Letta.

Già, Letta. È lui il terminale della trama dei possibili congiurati. Mezzo governo lo vorrebbe a palazzo Chigi al posto del premier. Sarebbe l’unico garante dell’equilibrio prima del baratro, l’unico in grado di ricomporre il mosaico: tregua con Fini, allargamento a Casini, gestione della crisi. Lo pensa la Gelmini, lo sostiene Franco Frattini, altro fautore di un nuovo governo con l’Udc, anche se passa per la testa del Capo.

E basta vedere l’attivismo di Alfano per capire che il partito del regicidio è guidato da quelli che nel Pdl contano di più. Il giovane guardasigilli - tigna sicula, scuola democristiana - è l’unico, in quattro lustri di berlusconismo, che non è rimasto bruciato dal dossier più incandescente, la giustizia. Ha ottimi rapporti con Fini, costruiti ai tempi delle trattative impossibili sulla giustizia, e coltivati, oggi, nei cordiali incontri con Bocchino, quando da giovani papà accompagnano i figlioletti alla stessa scuola: parole in libertà, molto veritiere, e molti punti di incontro. Gianni Letta lo considera il migliore della sua generazione, e pure Fini pensa che il ragazzo sta crescendo. E chissà se è un caso che sabato scorso il promettente Alfano ha partecipato all’incontro con Formigoni, Lupi, Fitto e Mario Mauro a Milano, per rinsaldare i legami con gli ultra cattolici del Pdl. Anche per lui, con Letta a palazzo Chigi, si spalancherebbe una prateria.

Avanza il partito del «passo indietro», perché ogni giorno che passa le urne sembrano una prospettiva remota. I segnali di smottamento al Senato, la paura dei peones, le picconate di Fini e Casini indicano che un governo tecnico è possibile. Il “partito di Letta”, cui fanno riferimento ministri, pezzi di establishment e poteri che contano, prima ancora di un nome esterno teme la soluzione Tremonti. E il pressing sul premier per passare lo scettro nelle mani sicure del fedele sottosegretario si è fatto pressante.
La pensa così pure Claudio Scajola, punto di riferimento di una cinquantina tra parlamentari e senatori, e attivissimo con la sua fondazione Cristoforo Colombo. Scajola ha avuto uno scambio di idee sia con Fini sia con Casini. A loro ha spiegato che sarà fedele al premier, e che un «governicchio Pisanu» non lo convince. Epperò, l’ex ministro teme che questa tenzone muscolare si traduca nella rovina delle parti in causa, o in un governo Tremonti, e sempre di rovina si tratta: «L’unica soluzione - questo il ragionamento confidato ai collaboratori - è un governo Letta, ma deve essere Berlusconi a indicarlo, altrimenti è complicato». Un auto-regicidio.

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